Marionette che passione alla Biennale di Venezia

di Marco Vallora

I cultori del raffinatissimo cenacolo kleistiano di marionette La Fede delle Femmine sono ormai «contagiati» ed affiliati in un segreto club di ammiratori fanatici, che mai si perderebbero uno dei loro esclusivi spettacoli: esclusivi, anche perché data la dimensione del teatrino non si può che contenere l'irruenza del pubblico, che vorrebbe finalmenie iniziarsi a questa magia. Così, tra il ricchissimo menu della rinata Biennale Musica, ecco nei ridotti della Fenice la lusinga di una nuova gratificazione. Questa volta, il gruppo dl straordinarie signore dell’immaginario teatrale, che già hanno incontrato nel loro fiabesco cammino Hawthorne, Stravinskij, Virgil Thomson, affrontano quel singolare personaggio poetico-musicale che fu Gian Francesco Malipiero, allievo di Marco Bossi, «riscopritore» — in anni grami per la ricerca — di Monteverdi e Vivaldi, ed originale forgiatore di una sua «nuova» musica dialettal-neo-classica, che molto peso culturale, più che influenza, ebbe per le generazioni a venire. Su una bellissima esecuzione ritrovata (e priva di altre indicazioni: di chi mai saranno le voci?) diretta da Nino Sanzogno delle Sette canzoni, ovvero Sette espressioni drammatiche, il Gran Teatrino La fede delle Femmine con la collaborazione della De Sono di Torino ha prodotto insieme una credibilissima partitura para-operistica, rispettando il dettato burbero e «bisbetico» del vecchio saggio di Asolo: «Le Sette canzoni nacquero dalla lotta tra due sentimenti: il fascino per il teatro e la sazietà per l'opera».
E tutto questo si vive benissimo ed è magnificamente materializzato nel raffinato lavoro scenografico-marionettistico dello spettacolo, che per raccontare queste fulminanti epifanie vissute da Malipiero inventa una specie di novecentesco miserabilissimo picaresco-pitocco, un gusto barocco-déco.
Flash drammatici fatti (narrativamente, operisticamente) di nulla, ma densissimi di esplosiva sentimentalità, e collegati da strazianti interludi, provocatoriamente un po' alla Leoncavallo. Un violinista cieco che viene abbandonato dalla moglie senza potersene nemmeno accorgere.
Una madre che piange il figlio perduto nella guerra e folle di dolore nemmeno lo riconosce quando questi ritorna. Un campanaro che suona a distesa, flschiettando oscenanente La donna è mobile. Oppure il caracollante carretto dei mostri che avanza come una tarantella funebre dentro «L'Alba delle Ceneri, quando la quaresima viene a liberarci dall'invadente banalità carnascialesca». Siamo abituati a spettacoli più fosforescenti e maliziosi, scomposti di proporzioni, da parte di questo originalissimo gruppo: questa volta la fedeltà assoluta alle didascalie di Malipiero crea uno spettacolo del tutto diverso, aspro, ma non meno fascinoso. Rigorosamente in bianco e nero (come il coevo cinema muto: le Canzoni sono del '18-19, quindi non lontane dal mondo di Stravinskij e Casella, ma anche le Maschere di Mascagni sono di pochi decenni prima), un bianco e nero sporco, cementato di grigio alla Fausto Pirandello: lampioncini tisici, il profilo degli alpini, gli sproloqui degli ubriachi, casacche e vetrate di chiese. Un poemetto di Noventa.