Da Venezia “La Grande Bretèche”, tra gelosia e sadismo

di Mario Messinis

Mantova - Il "Gran Teatrino La Fede delle Femmine” continua ad esplorare le zone oscure della realtà, ad affrontare temi ambigui e notturni, raggelati in un segno visivo nitidissimo, ma proprio per questo ancor più emozionante: la lucida calligrafia è carica di allusioni e di sottolineature inquietanti. Il tessuto narrativo della novità presentata al Palazzo Ducale di Mantova, nell’ambito del Festivaletteratura, è costituito da un racconto "nero" di Balzac, "La Grande Bretèche". E' la storia di una sadica gelosia: Monsieur de Merret viene preso dal sospetto che la moglie nasconda in uno stanzino-guardaroba il proprio amante; lei nega e giura su un crocifisso la sua fedeltà. Il marito fa murare lo spazio ove presume si nasconda il riivale, e la contessa, scoperta nel tentativo di salvare il recluso, si abbandona ad un destino senza luce.
Il gruppo veneziano (Margot Galante Garrone, Margherita Beato, Paola Pilla) sfrutta tutte le possibilità di una visualizzazione miniaturizzata, in cui coesistono, in un mirabile doppio rappresentativo, la presenza delle marionette, ridotte a una gestualità parca ed essenziale, e le preponderanti riprese video, che scorrono sul piccolo schermo, posto sul fondo del teatrino (si potrebbe addirittura ipotizzare anche un terzo piano, come un cammeo figurativo dei protagonisti). Rispetto ad altre precedenti esperienze della "Fede delle Femmine", il racconto è più semplice e lineare, anche perché è descritto analiticamente da una premessa verbale che rende esplicita la trama con la limpida lettura di Caterina Luciani.
Le musiche, come al solito, svolgono un ruolo decisivo con tre piani prevalenti: il radicale neoespressionismo di Kurtag, che sottolinea la crudeltà del protagonista, dominato da una esasperata gelosia; le liriche vocali di Gluck, che commentano la delicata passione amorosa; il lirismo molto espressivo di Nino Rota (e di Saint-Saëns), sul quale tra l’altro si costruisce l’angoscioso epilogo della vicenda. Le musiche sono molto differenziate anche nelle pagine novecentesche (la neoavanguardia delirante di Kurtag, e la cantabìlità diretta di Rota) e creano un clima sonoro consono alle varie situazioni, mentre le immagini sono indirizzate verso una drammaturgia ossessiva, tesa ad una inevitabile estinzione. Il discorso scenico, realizzato con precisione microscopica nello sfruttamento a momenti astratto del quadro visivo, punta sulla evidenza teatrale e alterna il segno realistico all’appello visionario. Pochi gli oggetti scenici: una lampada floreale e due ceri emblematicamente raffigurano una funerea ritualità pseudomistica; la croce, investita da riflessi di fiamma, rinnova la menzogna della donna; il gioco mobilissimo di siparietti determina la varietà del racconto. Ci sono scorci di paesaggio che acquistano risvolti psicologici, con al centro la raffigurazione del perverso Monsieur de Merret. Gli attori sono tutti veneziani e dilettanti. La tensione dello sguardo di Sergio Camerino è impressionante nella figura protagonistica: è un avvocato attratto dal piacere della recitazione; Sara Mancuso incarna il ruolo dell’adultera Madame de Merret, capace di immedesimarsi in una estenuata attesa della fine. Marco Baratti è il sensuale amante spagnolo. Il filologo romanzo Francesco Zambon è il rigoroso notaio, che assiste alla morte della infelice giovane.
Il coordinamento tra gesto marionettistico e discorso filmico è molto suggestivo tra artificio ed evidenza naturalistica. lnsomma un piccolo capolavoro, per un piccolo spettacolo esaltato dalla singolare conoscenza letteraria e musicale, in cui le minute immagini accrescono la densità tragica della vicenda. È una produzione che dovrebbe circolare tra rassegne e festival dopo il prestigioso debutto mantovano.